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 "I figli del desiderio e la pratica del limite" di Silvia Vegetti Finzi

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MessaggioTitolo: "I figli del desiderio e la pratica del limite" di Silvia Vegetti Finzi   "I figli del desiderio e la pratica del limite" di Silvia Vegetti Finzi EmptyVen 15 Giu 2012, 23:20

Tratto dagli atti del convengo "Gravidanza e bambini dopo procreazione medicalmente assistita", coordinato da Guido Ragni, Gruppo Edititoriale EDITEAM s.a.s, tenutosi a Milano nel marzo 2011.

I FIGLI DEL DESIDERIO E LA PRATICA DEL LIMITE

( Questo testo riprende il saggio: S.Vegetti Finzi” Il desiderio procreativo trà libertà e responsabilità”,pubblicato in: AA.VV. “ Una appropriazione indebita”, Baldini, Castoldi, Delai. Milano 2001.)

Silvia Vegetti Finzi
Ex membro del Comitato Italiano di Bioetica
Già docente di Psicologia Dinamica, Dipartimento di Filosofia, Università di PAVIA


Una persona non sarà ciò che deve
se non sarà ciò che può
(Goethe)

A partire dal 1978, data della nascita di Louise Brown, la prima “bambina in provetta”, gli interventi tecnici sulla fecondazione umana si sono rapidamente affermati in tutto il mondo. Contrariamente ad ogni aspettativa, le proposte di fecondazione artificiale non hanno incontrato da parte dell’opinione pubblica quelle reazioni di diffidenza e di paura che avremmo dovuto attenderci da un avvenimento così dirompente.
In Italia, nonostante la pesante condanna della Chiesa cattolica, l’evento è passato quasi inosservato, come se fosse una possibilità “ovviamente“ offerta dal progresso scientifico.
Vi sarebbe molto da dire sulle speranze suscitate dal positivismo, quando la cura delle malattie e delle disfunzioni sembrava un progresso inarrestabile, effetto di un sapere cumulativo e di una tecnica sempre più perfezionata.
Ma se la scienza non riconosce i propri limiti, finisce per convergere con la magia. La medicina, che perseguiva una conoscenza obiettiva e razionale dell’uomo e del mondo, ha di fatto suscitato nei suoi fruitori atteggiamenti di tipo magico e salvifico.
Nella misura in cui la scienza si inscrive in una prospettiva messianica, ci si attende che il male di vivere, che attanaglia il corpo e la mente dell’uomo, sia in un prossimo futuro completamente debellato. Per l’immaginario infatti non esistono limiti, è solo una questione di tempi e di modi ma alla fine ogni problema troverà la sua soluzione.
Si comprende quindi come la sterilità, defaillance della natura, costituisca ora una sfida per la medicina, per l’onnipotenza che viene indebitamente attribuita.
Sappiamo che è difficile definire come terapia organica gli interventi biotecnologici che cercano di avviare a condizioni di sterilità perché il corpo, anche quando è messo in grado di procreare, rimane sostanzialmente sterile. Tuttavia chi vi si sottopone, benchè non riacquisti integrità e funzionalità, può comunque raggiungere uno scopo vitale, inscritto nel corpo e nella mente, un obiettivo che può risultare essenziale per la definizione o la conferma dell’identità personale e di coppia (1).
Ma, se privilegiamo la dimensione psicologica della fecondazione artificiale, dobbiamo porre la massima attenzione alla relazione terapeutica.
Spesso, in questo ambito, il rapporto medico-paziente, investito da desideri smodati, insofferenti del limite e della misura, incapaci di accettare la parzialità e lo scacco, si dimostra ad alto rischio.
Poiché la domanda di fecondità non si limita all’ostacolo organico ma mette in gioco il senso dell’esistenza, il valore di sé, la propria realizzazione, il diritto alla felicità finisce per coinvolgere tutta la sfera psichica, conscia e inconscia, razionale e irrazionale.
E l’inconscio come si sa è infantile, onnipotente, intransigente, sicuro di ottenere tutto ciò che chiede. Un regime ad alta perturbazione emotiva esiste in tutta la medicina, ma incombe particolarmente sulla fecondazione indotta in quanto il ginecologo interviene sul misterioso ed emozionante procedere della vita dalla sessualità.
Alla donna che vuole un figlio a tutti i costi il medico, catturato nel gioco speculare dei desideri, tenta di rispondere con un bambino in tutti i modi (2).
Tuttavia le dinamiche del desiderio sono rese invisibili dall’appiattimento della domanda del bisogno. Il ginecologo traduce infatti una richiesta complessa, difficile, contradditoria nel registro medico della malattia e della cura.
Il silenzio del soggetto sul suo desiderio determina una serie di deleghe: dal paziente al medico, dal medico alla tecnica.
Si è così introdotto, in tutta la sua complessità, il tema più misconosciuto dalla medicina e dalla riflessione biotica, quello del desiderio.


IL DESIDERIO FEMMINILE TRA LIBERTA’ E RESPONSABILITA’

Il termine “desiderio” è il più enigmatico dell’intera psicologia umana.
Etimologicamente desiderium significa “aver cessato di contemplare gli astri a scopo augurali”. In questo senso rinvia a un processo storico di progressiva laicizzazione della vita e del destino.” L’uomo vi appare gettato nella distanza che lo esilia dall’ordine del cosmo, dalla salvaguardia delle costellazione, dal mito di una natura benevola che regge le sorti dell’accadere (3).
Poiché si desidera soltanto ciò che non si ha più e non si ha ancora, il desiderio si situa tra i due nulla del passato e del futuro e, come tale, consiste nell’assenza. Non si tratta però di carenza di un oggetto, come accade per il bisogno, inscritto nella sequenza lineare causa-effetto, ma di mancanza ad essere, di assenza di sé a sé. Mentre un bisogno, ad esempio la sete, si può soddisfare con un'azione specifica, bere, e con un oggetto determinato, l’acqua, il desiderio, non saturabile da un agire o da una cosa, si esprime soprattutto come desiderio di essere riconosciuto, come espressione di un soggetto desiderante. Il desiderio si colloca pertanto nella dialettica con l’altro, nella logica speculare della reciprocità; la domanda di riconoscimento fonda al tempo stesso l’identità e l’alterità, due facce della stessa medaglia.
Per la psicoanalisi il desiderio pertiene alla dimensione dell’inconscio ed è alimentato dalla traccia mnestica di una soddisfazione remota, pre-istorica.
Prototipo di ogni soddisfazione è l’unità madre-figlio quando, nel periodo neonatale, il bambino è la madre. Un essere indistinto, senza falle, senza crepe, esemplare dell’uno, del tutto cui l’individuo, una volta separato dalla matrice, anela di ritornare (4).
Il motore del desiderio è quindi nel passato, in una condizione perduta per sempre, irraggiungibile e perciò stesso telos di ogni tensione desiderante. Il rapporto diadico madre-figlio si situa nel periodo pre-edipico, prima del tempo, prima dello spazio, prima che un soggetto dica “io”. Solo successivamente, infatti, l’unità originaria, che non conosce conflitto, viene separata dal divieto dell’incesto, rappresentato dal padre. Come scrive Racamier: “…L’Io, fin dalla prima infanzia, prima ancora di emergere e fino alla morte, rinuncia al possesso totale dell’oggetto, compie il lutto di un’unione narcisistica assoluta e di una costanza dell’essere indefinita e, tramite questo lutto, fonda le sue stesse origini, opera la scoperta dell’oggetto e del sè e inventa l’interiorità” (5).
Grazie al negativo dell’interdizione, l’assoluto positivo si infrange e nella sua compattezza si insinua la mancanza. Il binomio speculare, basato sul narcisismo, si articola nella triangolazione edipica – padre, madre, figlio – dove ciascuno si definisce per distanza, differenza, mancanza.
Una triangolazione immobile se al suo interno non continuasse a lavorare la capacità destrutturante del divieto. E’ infatti grazie alla proibizione dell’incesto che il triangolo edipico si spacca lasciando defluire le energie che lo animavano verso l’esterno, il non familiare, l’estraneo, l’altro. Si passa così dal regime endogamico dell’infanzia a quello esogamico della maturità, effetto di un doppio divieto: quello rivolto alla madre “non reintegrerai il tuo prodotto” e quello rivolto al figlio “non sposare la madre e non uccidere il padre”.
Il desiderio di un figlio è quindi effetto di un contraddittorio regime, dell’essere e del non-essere. Il primo consiste nella memoria di una soddisfazione senza limiti, il secondo nell’ingiunzione di un limite senza soddisfazione.
In quanto inizialmente connesso alla madre pre-edipica, il desiderio è destinato a non trovare mai l’oggetto cercato, reso impossibile dal divieto dell’incesto.
E’ nell’intercapedine di vuoto che si crea tra la madre e il figlio che prende corpo, evocato dal desiderio di entrambi, quel fantasma di generato che ho denominato “il bambino della notte” (2, 6). L’assenza di figlio precede il suo fantasma e, in un certo senso, lo evoca (7).
Per la donna si tratta di passare dalla fantasia di dare un bambino alla madre a quella di chiedere un figlio al proprio padre. E si dà ciò che si ha mentre si domanda ciò che non si possiede. Tra le due posizioni si interpone il divieto dell’incesto che non soltanto separa il figlio dai suoi oggetti d’amore, dalle persone a lui più prossime, ma la divide da se stesso impedendogli di sostenersi nell’autosufficienza narcisistica. Il soggetto, attraverso il lutto della propria originaria integrità, si apre alla domanda e perciò stesso al riconoscimento dell’altro.
Per secoli la generazione ha richiesto la coniugazione, vale a dire l’abbandono della fantasia infantile di partenogenesi, sostituita dall’”umiliante” ammissione che nessuno basta a se stesso e che per procreare occorre essere in due.
Ammissione che, sul piano di realtà, resterà valida finchè non saranno disponibili processi di clonazione e di gestazione extracorporea. Tuttavia, soprattutto per le donne, la riduzione del partner a materiale generativo – come accade quando si ricorre a un’anonima donazione di sperma – sembra realizzare l’inconscio fantasma di partenogenesi.
Essere nato da sé e generare da sé sono due facce della stessa medaglia, espressione dell’onnipotenza che regna agli albori della vita psichica e che non viene mai abbandonata del tutto. In questi ultimi anni la fantasia di un autogenerazione si manifesta pubblicamente nella richiesta (elitaria ma ampiamente diffusa come messaggio perché espressa da divi del cinema, della televisione, della musica) di avere un figlio senza impegnarsi nella relazione sessuale, senza chiedere nulla a nessuno.
Indipendentemente dai limiti tecnologici, nel pensiero comune la procreazione, resa autonoma non solo dalla coniugalità, ma anche dal rapporto sessuale, sta diventando una variabile indipendente che l’Io concepisce come manifestazione di sè, come modalità di autorealizzazione.

CONIUGALITA’ E GENERATIVITA’: DISSOLUZIONE DI UN BINOMIO STORICO

Sino a qualche anno fa la filiazione si presentava come conseguenza del matrimonio. Una volta sposati, i due coniugi sarebbero diventati automaticamente padre e madre dei loro eventuali figli.
Mentre le nozze costituivano una scelta, la generazione no perchè, avendo optato per il regime coniugale, la procreazione andava da sè.
In tal modo, mancando un ambito di riflessione e di decisione, non si ponevano, in ordine al generare, particolari problemi morali; conflitti e contraddizioni restavano latenti.
Soltanto quando, con la contraccezione, la sessualità si è separata dalla procreazione e, con la fecondazione artificiale, la procreazione si è resa indipendente dalla sessualità, è divenuto possibile scegliere se, quando e come diventare genitori.
Sono allora emerse perturbazioni del desiderio generativo che hanno reso problematico il campo della genealogia umana.
“Chi è figlio di chi?” è la domanda che si sottende alle trasformazioni indotte dal mutamento dei rapporti familiari e dalla diffusione delle biotecnologie.
Mentre i padri possono essere due – genetico e sociale – le figure materne possono essere tre – genetica, biologica e sociale.
Sinora l’identificazione della vera madre si basa, per la nostra legislazione, sull’evidenza del parto. Spetta alla gravidanza e alla nascita fornire l’avvallo della relazione madre-figlio. Nel momento in cui tutto ciò, nella nostra società, sta diventando sempre più astratto e simbolico, mentre le relazioni si riducono a messaggi informatici e il corpo stesso sembra dissolversi nella molteplicità delle “protesi” che sostituiscono o ampliano le sue funzioni, la maternità rimane giuridicamente ancorata al cordone ombelicale, ultimo vincolo che l’individuo tardo moderno intrattiene con la sua componente naturale, organica dell’origine.
Di contro il padre è sempre più spesso tale solo sui certificati di famiglia, una “presenza assente” che le donne hanno imparato a vicariare assumendo su di sé entrambe le funzioni genitoriali. (8 )
Da una parte quindi un residuo materialistico, la madre – grembo, dall’altra un astratto formalismo, il padre – nome, stretti nel nodo corpo-Legge.
Il tentativo è quello di preservare, nella dissoluzione dei vincoli biologici e sociali, le figure parentali, di mantenere la triangolazione edipica come cornice di riferimento dell’identità di ogni nuovo nato.
Ma l’introduzione del divorzio ha modificato la struttura familiare in profondità e ora è chiaro, soprattutto alle nuove generazioni, che il legame coniugale è a termine, anche se può durare tutta la vita, mentre il nocciolo duro è rappresentato dalla genitorialità. Si può sempre cessare di essere marito e moglie o di costituire una coppia di conviventi, ma il rapporto genitori-figli è “per sempre” (9).
Lo sfasamento tra i tempi della coniugalità (certificata o meno) e quelli della genitorialità, rendendo difficile coordinare le funzioni parentali soprattutto in regime di separazione, fa sì che divenga sempre più desiderabile un figlio proprio, un bambino che cresca in una famiglia monoparentale, sia essa costituita dalla madre o dal padre.
Se un tempo il bambino allevato dalla madre sola era per lo più un figlio illegittimo o precocemente orfano, ora la sua condizione non è necessariamente provocata da un destino negativo, da una dolorosa privazione. Può essere l’esito di un desiderio forte e vitale, espressione della radice narcisistica dell’Io che occorre riconoscere e analizzare.
In questi casi non viene cancellato soltanto il padre ma anche la posizione paterna nella triangolazione edipica; lo schema familiare si contrae da tre a due posti.
Le nuove famiglie composte sin dall’origine di madre e figlio/a e, in futuro, di padre e figlio/a sono gli esiti estremi di un processo di disgregazione le cui principali tappe, come abbiamo visto, sono: la separazione della sessualità dalla procreazione; della procreazione dalla sessualità; della genitorialità dalla coniugalità. Scissioni che riguardano al tempo stesso la società, la coppia e l’individuo. Muta infatti anche la geometria della mente, sempre meno organizzata intorno all’architrave del complesso edipico (10).
Eppure le figure interiori, che Freud considerava universali e perenni, non sono destinate a svanire così in fretta e si può prevedere un lungo periodo di dissonanza tra mondo interno e mondo esterno.

L’INCOLLOCABILE GENITORIALITA’: FIGLIO DEL SANGUE O DEL NOME?

Per quanto riguarda la procreazione umana, vi sono attualmente due vettori che tendono a congiungersi e a incentivarsi a vicenda.
Dalla parte del desiderio individuale: un figlio proprio, non coniugato, partenogenetico. Dalla parte della scienza, un bambino perfetto, prodotto ad alto livello dell’ingegneria genetica. Sarà difficile, in futuro, resistere all’offerta di un bambino sanissimo, bellissimo, intelligentissimo. Vi è infatti in gioco la sua felicità, il suo futuro e si sa che i genitori difficilmente resistono alla possibilità di veder realizzate tutte le loro aspettative.
Va inoltre osservato che quanto più il prodotto generativo viene staccato dalle figure genitoriali, tanto più diviene disponibile alle manipolazioni migliorative. Significativa, in questo senso, l’utopia platonica della Repubblica dove l’allevamento in comune dei nuovi nati, preceduto da una rigida selezione, è perseguito attraverso una ferrea manipolazione del corpo e dello spirito. Scrive in proposito Patrizia Pinotti: “ …la strategia perseguita dal padre del discorso per ottenere un’ottima progenie: quella di spezzare il legame tra il bambino e la madre biologica, facendo deflagrare quest’ultima in una pluralità di figure a ciascuna delle quali compete, rispettivamente e gerarchicamente, un segmento dell’intero processo generativo” (11).
Abbiamo visto come la famiglia contemporanea, implosa come struttura complessiva, si sia attestata sul nucleo forte della genitorialità, ma quella che viene evocata, come baluardo della minacciata identità umana, è piuttosto la famiglia immaginaria, quella tramandata dalla tradizione come struttura capace di organizzare socialmente e individualmente l’anarchia pulsionale.
Tradizionalmente il desiderio inconscio che urge, come abbiamo visto, verso obiettivi anarchici, è stato incanalato nella triangolazione familiare ove viene plasmato dal suo sistema di incentivi e divieti in modo che, come osservano Deleuze e Guattari, “non oltrepassi le mura domestiche per inondare la società” (12).
Una volta inscritta nel circuito della trasmissione generazionale, l’onnipotenza narcisistica trova automaticamente le sue mediazioni.
Ma, a ben guardare, anche la famiglia tradizionale riveste solo formalmente struttura stabile ed evidente perché al suo interno si rivelano crepe e contraddizioni che ne mettono in crisi il sistema di cooptazione.
Benché definita aristotelicamente come “cellula naturale della società”, la famiglia ha paradossalmente assegnato, proprio ai figli naturali, una posizione marginale ed estranea. La consanguineità, benché costituisca un tratto di natura, non basta da sola ad attribuire lo statuto di figlio.
Nelle società tradizionali, il “vero figlio” non è quello naturale, nato da madre nubile o adultera, frutto di un amore proibito, di un impulso sessuale incontrollato, ma da quello certificato, venuto al mondo nello spazio protetto del matrimonio e della casa avita. In questo senso il solo padre autentico è quello sociale, che legittima con il suo nome il prodotto del grembo coniugale, secondo quel patto solidale tra corpo e Legge che abbiamo visto essere tuttora in vigore benché il nuovo Diritto di Famiglia abbia equiparato a tutti gli effetti il figlio riconosciuto, sia esso nato dentro o fuori il matrimonio.
Alla luce delle contraddizioni della famiglia tradizionale, il bambino nato da fecondazione artificiale con seme di donatore, risulta meno stravagante del previsto. Si colloca infatti a metà strada tra l’immaginario e il simbolico tra la segretezza e l’evidenza, tra la natura e la cultura. Da una parte è prodotto da materiale genetico proveniente da donatore ignoto, di cui non si conoscono né le generalità né le motivazioni, dall’altra è figlio di un desiderio personalizzato, in grado di giustificarsi ma non di realizzarsi. Nell’inconscio tra un copro non simbolizzato (il donatore) e un simbolo incorporeo (il padre sociale) si inscrive il bambino tecnicamente indotto.
Per molti osservatori, i figli nati da fecondazione artificiale, costituiscono, per quanto riguarda l’atteggiamento genitoriale, un arretramento morale rispetto ai valori di comunanza e solidarietà espressi negli anni ’70, quando il progetto adottivo sembrava segnare la fine della priorità attribuita nella famiglia ai rapporti di proprietà e ai legami di consanguineità. Il motivo che spinge la maggior parte delle coppie lungo il difficile percorso della fecondazione cosiddetta eterologa è infatti l’auspicio: “che il bambino sia almeno parzialmente nostro, che riproduca le nostre caratteristiche, che sia se non altro somigliante a uno di noi”.
La consanguineità sembra così costituire un valore prevalente rispetto alla disponibilità affettiva e alla relazione sociale. Assistiamo, proprio in questi giorni, a una proposta di Legge che consenta ad ogni nato, raggiunta la maggiore età, il recupero dei suoi dati anagrafici: la conoscenza della madre ed eventualmente del padre naturali. Mentre sino a poco tempo fa il segreto dell’origine avallava la sufficienza della famiglia adottiva e ne proteggeva l’intimità, la cancellazione dei dati di nascita ha improvvisamente cambiato significato e appare ora come una violenza perpetrata ai danni dell’identità personale. Ma è proprio vero che padre e madre adottivi non bastano alla definizione di sé? E’ necessario conoscere, salvo rari casi di malattie ereditarie, chi ci ha trasmesso il patrimonio biologico che ci contraddistingue (13). Non vi è il pericolo che moltiplicando le figure genitoriali si finisca col delegittimarle tutte?
La ridefinizione della genitorialità, dal primato sociale a quello biologico, è stata così rapida che non abbiamo avuto neppure il tempo di analizzarla.
Da quando si è reso possibile, il “figlio della scienza” offerto dalle biotecnologie, il figlio della società, proposto dall’adozione, regredito a seconda istanza, valida nel caso di fallimento della prima ipotesi. Almeno per quanto riguarda la maggioranza delle coppie sterili.
Evidentemente la probabilità di reintegrare la fecondità ha dato espressione a un livello pulsionale, a un desiderio corporeo, che l’incurabilità della sterilità tendeva a rimuovere a favore di scelte più razionali. Ma il bambino adottato non è immediatamente figlio. Diviene tale soltanto attraverso un lavoro di elaborazione del lutto, di accettazione dell’impossibilità, di ammissione del reciproco bisogno d’amore, grazie al riconoscimento incrociato di genitorialità e filiazione.
Il richiamo suscitato nella coppia dell’eventualità di un figlio proprio, magari solo parzialmente proprio, tuttavia generato in sé e per sé, risponde invece a un’altra logica: all’emergere della componente inconscia della psiche, alla priorità della dimensione immaginativa rispetto alla realtà.
L’aspirante genitore che chiede un figlio all’Ospedale piuttosto che al Tribunale (2) riattiva l’attesa del “bambino della notte”, la fantasia di autogenerazione dell’infanzia. La scelta rivela quanto sia importante la gestione del desiderio inconscio della definizione di sé, del proprio ruolo paterno e materno. Non dimentichiamo però che il “figlio della scienza”, analogamente a quello adottivo, non è frutto del rapporto sessuale della coppia genitoriale.
Con la fecondazione indotta viene meno un fattore simbolico essenziale per il riconoscimento della reciprocità.
In un certo senso il mancato contatto dei corpi materno e paterno prefigura la nascita da un solo genitore, quell’obiezione alla coniugalità che sappiamo sussistere nell’inconscio. Il padre, nel caso di donazione di sperma, è di fatto un adottante che subentra dopo, a cose fatte. In realtà esiste un coinvolgimento affetto e fantastico che inizia col progetto generativo e si alimenta poi nel corso di una gestazione vissuta in sintonia e di un parto emotivamente condiviso. Anche se il bambino non è geneticamente un figlio, la capacità umana di attribuire senso e significato all’accadere lo rende tale. Perché si costituisca una coppia genitoriale anche in mancanza di coito fecondato occorre che le due menti si coordinino e ogni membro della coppia relativizzi la propria posizione in confronto a quella dell’altro.
L’autogenerazione è sempre stata sentita, sin da Aristotele, come una minaccia per la società in quanto manifesta la connotazione narcisistica, autarchica, anarchica del desiderio inconscio.
Tale superamento della generazione tradizionale, per cui il figlio è il prodotto dell’utero materno fecondato dal padre sociale, quanto l’eclisse dell’ideologia egualitaria, per cui un bambino vale l’altro e ciò che conta è la disponibilità psicologica e sociale all’affiliazione, fanno ora emergere uno scenario psichico più mobile e complesso, quello appunto messo in luce dalla scandaglio dell’inconscio. Un bambino nato dal proprio corpo è al tempo stesso un desiderio remoto e nuovo. Ciò che muta, ad opera delle biotecnologie, è il passaggio dallo spazio mentale a quello sociale. Spesso le persone che vorrebbero o hanno già realizzato una fecondazione prescindendo dal rapporto di coppia si giustificano adducendo una serie di impossibilità è sempre più difficile vivere insieme, i due sessi non si tollerano più, voglio evitare a mio figlio le sofferenze della separazione familiare.
Ma privilegiando le motivazione difensive, misconoscono le radici vitali del loro desiderio, le sue componenti pulsionali, i suoi contenuti immaginari.
Lo scandaglio dell’inconscio invece dà voce alle ragioni del corpo e connette l’anatomia e la fisiologia a figure latenti, a precognizioni istintuali che organizzano e orientano le pulsioni così come accade agli animali. Con la differenza che nell’uomo l’istinto è da sempre condizionato da interdizioni ed esortazioni culturali.
Il desiderio di un figlio viene così strappato all’unidimensionalità della riproduzione e introdotto nella complessa relazione che connette l’identità con se stessa e con l’altro che al tempo stesso, la costituisce e la minaccia.
L’inconscio dice: vorrei vivere senza dipendere dagli altri; la ragione dice: non posso vivere senza gli altri. Tra autonomia e dipendenza si apre lo spazio esistenziale della mediazione.
Al “cogito ergo sum” cartesiano, la psicoanalisi contrappone un “desiderio ergo sum”. Ciò che nella sostituzione viene perduto è proprio la fondazione certa e garantita dell’identità, la risposta data una volta per tutte al quesito “chi sono io?”.
L’equazione stativa dell’Io con se stesso, rivelatasi impossibile, lascia il posto a un’inesausta costruzione di sé, a una narrazione della soggettività destinata a rimanere inconclusa e ad aprire nuovi scenari dell’immaginario, delle relazioni interpersonali e della società.
Nel momento storico in cui la tecnica porge alle figure dell’inconscio il braccio temporale della loro realizzazione, si impone con urgenza un nuovo compito: comprendere la dinamica del desiderio, governare la sua caotica economia, tradurre la sua forza plastica, le sue energie trasformative in progetti razionali, coerenti e, se possibile, volti al beneficio individuale e all’utile sociale.

DESIDERIO E RESPONSABILITA’

Freud è chiaro in proposito: la libertà dell’individuo, consiste nella incondizionata espressione delle pulsioni sessuali e aggressive (4).
La prevaricazione dell’altro è quindi una legge di natura che noi abbandoniamo obtorto collo, soltanto perché preferiamo la sicurezza alla felicità. Dato che nell’immaginario inconscio, la pulsione sessuale rappresenta i propri scopi procreativi in forma egoistica, dobbiamo ritenere che il patto di genitorialità sia una conquista della civiltà. Esso prevede infatti un impegno di lunga scadenza che contrasta con l’immediatezza della soddisfazione pulsionale. Ora il desiderio di generare in forme partenogenetiche, prossime all’autarchia degli animali inferiori, esprime in un certo senso un’aspirazione pre-culturale, il ritorno a un tempo preistorico, precedente il patto sociale.
Il pensiero di un prodotto generativo egoistico recepisce una richiesta di lavoro mentale che proviene dal corpo: è il corpo che tenta di far valere la propria autarchia. Soltanto che sino a ieri le sue immagini erano rimosse nell’inconscio individuale e nell’immaginario sociale, dove vige la convinzione deresponsabilizzante di considerarle irreali: “è per finta, non è vero” (2). Ma l’immaginario non è né ininfluente né irrilevante, possiede una potenziale efficacia operativa, tanto che oggi le sue figure si sono trasformate in agire effettivo, comportamenti concreti, conseguenze irreversibili. “mentre alcune delle nostre più durature speranze e dei nostri timori di superare le limitazioni del corpo si fanno realizzabili, si chiede J. Turney “è forse troppo chiedere di riconoscere che l’invenzione di storie sul futuro è un’attività seria?” (15)
Di fronte al fatto che la fantasia sta invadendo l’esistenza, si assumono di solito due atteggiamenti polari: uno contraddistinto dal rifiuto, dalla condanna, dall’interdizione; l’altro caratterizzato dall’entusiasmo per il progresso e dalla soddisfazione per la raggiunta libertà dai limiti del corpo e dai vincoli della legge.
Ma si può parlare di libertà in un regime di individualismo anarchico, quando le ragioni degli altri non contano?
La libertà è tale soltanto se si definisce in forma residua, una volta scartate tutte [le] prevaricazioni ch’essa può provocare in se stessa e negli altri.
“E’ chiaro, scrive Giovanni Berlinguer, che la disponibilità del corpo nelle relazioni sessuali e la liberà procreativa (che comprende anche la libertà di non procreare) implicano anche doveri. Essi vanno intesi come responsabilità verso la propria dignità, verso un sistema di relazioni tra persone, dotate di proprie esigenze, e soprattutto verso chi nasce” (16).
Che cosa può dire in proposito la psicoanalisi? In primo luogo denunciare, come abbiamo tentato di fare, l’esistenza di un desiderio inconscio narcisista, onnipotente, insofferente della relazione, del limite e della misura.
Ma poiché il suo punto di vista non è moralistico, piuttosto che condannare cerca di comprendere.
Vediamo allora che il desiderio di procreare è composto da due dimensioni che, benché distinte, si combinano poi nella vita di ognuno.
La prima, profonda, pulsionale, corporea, ha un’estensione più ampia rispetto all’individuo e alla sua vita. Rappresenta un piano transindividuale, che attraversa il soggetto ma ne trascende i confini somatici e mentali.
Freud, sulla scorta della biologia dell’epoca, introduce una differenza radicale tra il “soma”, che è destinato a morire e le “cellule germinali” (ovuli e spermatozoi) che sono invece potenzialmente immortali. Scrive in proposito: “L’individuo conduce effettivamente una doppia vita, come fine a se stesso e come anello di una catena di cui è strumento, contro o comunque indipendentemente dal suo volere. Egli considera la sessualità come uno dei suoi propri fini; ma, da un altro punto di vista, egli stesso non è che un’appendice del suo plasma germinale a disposizione del quale pone le proprie forze in cambio di un premio di piacere. Egli è veicolo mortale di una sostanza virtualmente immortale …” (17, 18).
E’ questa una dimensione generativa che l’uomo condivide con gli animali pluricellulari, ma ve n’è un’altra tipicamente umana che corrisponde, non a un’impersonale processo di riproduzione, ma alla procreazione di un figlio.
In questo secondo caso vi è una dimensione personale e una continuità biografica del tutto sconosciute alla dinamica precedente.
Scrive Freud: “Se consideriamo l’atteggiamento dei genitori particolarmente teneri verso i loro figli, dobbiamo riconoscere che tale atteggiamento è la riviviscenza e la riproduzione del proprio narcisismo al quale i genitori stessi hanno da tempo rinunciato… Il bambino deve appagare i sogni e i desideri irrealizzati dei suoi genitori… L’amore parentale, così commovente e in fondo così infantile, non è altro che il narcisismo dei genitori tornato a nuova vita; tramutato in amore oggettuale, esso rivela senza infingimenti la sua antica natura” (17).
Il prodotto della fecondazione diviene un figlio solo inscrivendosi nella storia dei genitori, accogliendo le loro proiezioni, diventando parte del loro stesso narcisismo. E in questo modo garantendo loro una sorta di sopravvivenza individuale.
Mentre la riproduzione biologica ha come meta la continuazione della specie, la procreazione umana tende inconsciamente alla perpetuazione di sé.
Ecco quindi la “doppia vita” che l’uomo conduce quando genera. Una doppiezza che perturba il suo desiderio stringendolo tra l’economia impersonale della specie e quella personalissima della propria biografia, tra il tempo cosmico della natura e quello cronologico della cultura.
Se l’individuo genera soltanto perché dominato dalla necessità impersonale della specie e non riesce ad attribuire al nascituro la statuto di figlio, la genitorialità viene respinta come impropria. Così accade, seppure in modo diverso, nell’aborto volontario, nell’abbandono del neonato, nel misconoscimento di paternità. Se invece scatta la donazione di valore e di senso, la proiezione dell’amore di sé sul proprio prodotto biologico, il “progetto figlio” prende corpo e svolgimento.
E’ in quel momento che la coppia genitoriale si confronta con l’esistenza di un terzo, con bisogni e desideri che nascono dai propri, senza tuttavia coincidervi.
A questo punto si pone l’interrogativo se sia o meno lecito privare il nuovo nato di una delle due figure genitoriali. Sinora è stata il padre la figura più cancellata ma in futuro i due sessi potrebbero omologarsi anche in questo ambito.
Se ci riferiamo al sapere psicologico, che pertiene però sempre al passato, dobbiamo dire che non conosciamo nessun soggetto che non abbia inciso nella propria mente la mappa edipica con le sue tre posizioni: padre, madre, figlio.
Poiché si tratta di posizioni relative, il venir meno dell’una inficia tutte le altre.
Benchè Freud abbia sempre sostenuto che il complesso edipico, “architrave dell’inconscio”, è eterno e universale, non siamo tuttavia obbligati ad accettare dogmaticamente questa opzione di principio. I mutamenti iniziati il secolo scorso dell’assetto della famiglia esterna e interna ci autorizzano ad assumere una posizione più aperta al dubbio e all’indagine analitica. E’ forse possibile che il passaggio dalla “famiglia” alle “famiglie”, da un modello unico e normativo a una pluralità di configurazioni, comporti un nuovo assetto della mente e, di conseguenza, inedite soggettività.
Ho già osservato come questa possibilità costituisca la condizione per l’apertura dello scenario utopico, ma sinora non riusciamo ad immaginare un diverso palcoscenico psichico e sociale.
E’ vero che sono sempre esistiti bambini cresciuti da un solo genitore, ma essi conservano, benché vuota, la posizione dell’altro. E, come sappiamo, l’assenza può essere più determinante della presenza.
Lo smarrimento ci coglie invece di fronte all’eventuale cancellazione del terzo, alla dichiarazione: “il figlio è mio e lo gestisco io”, dove la concrezione di “io” e “mio” sembra interdire i necessari processi di autonomia del nuovo nato.
Se la disgregazione familiare giungerà ad intaccare la genitorialità, che per ora ne costituisce lo “zoccolo duro”, dovremo comunque fare i conti con gli effetti di una radicale, non contingente, monoparentalità.
Per impedire al genitore unico di chiudersi nell’autosufficienza e per assicurare al bambino due figure di riferimento, si finirà probabilmente col prescindere dal fondare la coppia padre-madre sul rapporto sessuale, così come su quello sociale attestato dal certificato di matrimonio o dalla convivenza.
Una possibile soluzione è rappresentata da un’alleanza genitoriale per cui due adulti si accordano per accogliere come figlio un nascituro senza che questo comporti una relazione sessuale, come invece viene presunto nelle coppie certificate o di fatto.
L’impegno preso di fronte alla comunità si limiterebbe allora a garantire responsabilmente al bambino funzioni paterne e materne. La sessualità resterebbe così un fatto privato, che non riguarda la società.
Ciò sarebbe conforme alle nuove identità di genere: mutevoli, complesse, individuali, non necessariamente definite dal tipo di partner cui si rivolgono (19, 20).
E’ difficile, se non impossibile, cogliere tutte le conseguenze di mutamenti che Berlinguer stesso, contrario a ogni iperbole, definisce “epocali”. Ma gli indizi ci dicono che le cose, ci piaccia o meno, stanno andando in questo senso. Si tratta allora di riflettere responsabilmente perché la realizzazione del desiderio non sia inibita, perché ciò comporta un inaridimento delle sorgenti vitali e della potenzialità creativa. Ma neppure immediatamente equiparata alla libertà, perché si rischia di negare bisogni, desideri e diritti degli altri (22).
Se è vero che la civiltà si regge, come sostiene Freud, sul sacrificio pulsionale, a che cosa dobbiamo rinunciare affinchè la generazione si preservi umana, nonostante il dilagare degli interventi tecnici?
La tecnica – così come la generazione rivolta alla continuazione della specie – procede in modo neutro, impersonale, necessario. Di contro il desiderio, congiunto alla responsabilità morale, conferisce all’uomo una dimensione soggettiva rispetto alla spinta della pulsione e all’urgenza dell’azione. Se esiste una possibilità, essa consiste nell’amministrazione del desiderio, funzione intermedia tra il corpo e la mente, tra la ragione e la passione, tra l’immaginario ed il simbolico, tra l’io e l’altro.
La riconosciuta complessità della realtà psichica e l’evidente frammentazione di quella sociale costituiscono ora una sfida per la creatività umana. Non ci chiedono infatti di adottarci in senso passivo e neppure di rifiutare l’impegno ma di utilizzare le capacità immaginative, al tempo stesso cognitive ed affettive, per configurare un nuovo assetto dei rapporti che l’individuo intrattiene con se stesso e con gli altri.

BIBLIOGRAFIA
1 - Boccia ML, Zuffa G. L’eclissi della madre, Pratiche Editrici, Milano 1998;
2 - Vegetti Finzi S. Il bambino della notte, Mondadori, Milano 1990;
3 - Vegetti M. La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kpjéve. Jaco Book, Milano 1998, pag. 74;
4 - Freud S. L’io e l’Es (1922). In opere, vol 9, trad. it. Boringhieri, Torino 1977;
5 - Racamier PC. Il genio delle origini Trad. it Cortina. Milano 1993; pag. 39;
6 - Vegetti Finzi S. Paradossi della maternità e costruzioni di un’etica femminile. In: Gabriella Buzzatti e Anna Salvo. Corpo a corpo, Madre e figlia nella psicoanalisi. Laterza, Roma-Bari, 1995, pp. 147-190;
7 - Per una rappresentazione visiva del “bambino della notte” si rinvia alla pittura rinascimentale ove, accanto a Gesù Bambino, compare il suo doppio, Giovanni Battista, ritratto per lo più come una creatura selvatica, con lunghi riccioli scuri e il corpicino avvolto in pelli di animali feroci;
8 - Zoja L. Il gesto di Ettore, Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre. Bollati Boringhieri, Torino 2000;
9 - Bernardini I. Finchè vita non ci separi, Rizzoli, Milano 1995;
10 - Preta L, a cura di Nuove geometrie della mente. Laterza, Roma-Bari, 1999;
11 - Pinotti P. Dal “Frankenstein” di Mary Shelley alla Repubblica di Platone. Storie permesse e storie proibite sulla paternità asessuata e sui figli della scienza. In “Materiali per una storia della cultura giuridica”. Dic. 2000; 2 (XXX): 493-510;
12 - Deleuze G. Guattari F. L’Antiedipo. Trad. it. Einaudi, Milano 1973;
13 - Belloni E. Le premesse incerte della terapia genica. In: Tempio Medico, 18 gennaio 2001; 1 (XLII); 5;
14 - Freud S. Il disagio della civiltà (1929). Trad. it. in “Opere”, Boringhieri, Torino 1978; vol. 10;
15 - Turney J. Sulle tracce di Frankenstein. Scienza; genetica e cultura popolare. Edizioni di Comunità, 2000; pp 287;
16 - Berlinguer G. Bioetica quotidiana, Firenze 2000. Si veda anche: Berlinguer G. Gorrafa V. La merce finale. Boldini & Costoldi, Milano 1996;
17 - Freud S. Introduzione al narcisismo (1914). Trad. it. in : “Opere”, Boringhieri, Torino, 1975, vol. 7, p. 448-46;
18 - Freud S. Al di là del principio di piacere (1920) Trad. it. in “Opere” Boringhieri, Torino 1977, vol. 9, p. 230 e seg.;
19 - Haraway DJ. Manifesto Cyborg (1989). Trad. it. Feltrinelli, Milano 1995;
20 - Vegetti Finzi S. Lo –corpo-macchina e nuovi costruttori d’identità. In “Psiche”, 2002, 1: 149-170;
21 - Vegetti Finzi S. Volere un figlio. La nuova maternità tra natura e scienza. Mondadori, 1997.

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"I figli del desiderio e la pratica del limite" di Silvia Vegetti Finzi
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