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| L’illegittimità della discriminazione finanziaria tra fecondazione omologa ed eterologa | |
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guapaloca Sognatrice suprema
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| Titolo: L’illegittimità della discriminazione finanziaria tra fecondazione omologa ed eterologa Sab 06 Ago 2016, 21:32 | |
| Con la sentenza del Consiglio di Stato del 20 luglio 2016, n. 3297, si è concluso il percorso verso la parificazione tra fecondazione omologa e fecondazione eterologa. Già la Corte costituzionale, con la sentenza del 10 giugno 2014, n. 162 aveva dichiarato l’incostituzionalità della norma che vietava il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo. Ora, il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 3297/2016, stabilisce che la determinazione della Regione Lombardia di distinguere la fecondazione omologa da quella eterologa, al fine del finanziamento a carico del sistema sanitario solo della prima, incide irragionevolmente sull’esercizio del diritto riconosciuto dalla Corte costituzionale, realizzando una disparità di trattamento lesivo del diritto alla salute delle coppie affette da sterilità o da infertilità assolute. Tale disparità di trattamento non può trovare giustificazione né nella discrezionalità delle regioni di finanziare prestazioni sanitarie aggiuntive rispetto ai “livelli essenziali di assistenza” (LEA), né nella scarsità delle risorse finanziarie. Quanto a quest’ultimo argomento, in particolare, occorre che vanga esplicitato perché taluni soggetti debbano essere preferiti rispetto ad altri (o talune prestazioni sanitarie siano considerate erogabili ed altre no), pena l’arbitrarietà di una diversa decisione.
Consiglio di Stato, sezione III, sentenza 20 luglio 2016, n. 3297 Il superamento del divieto al ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita
Con la sentenza del Consiglio di Stato del 20 luglio 2016, n. 3297 si conclude il percorso di progressivo smantellamento del divieto di ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita (cd. “PMA”) di tipo eterologo stabilito dall’art. 4, c. 3 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (“Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”).
Tale divieto – come avvenuto per altri principi e limiti stabiliti dalla controversa legge – era stato oggetto di sindacato da parte della Corte costituzionale, che ne aveva dichiarato l’incostituzionalità. La norma prevedeva il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita (termine con il quale si indica l’insieme di tutti i trattamenti per la fertilità nei quali le cellule riproduttive, cd. gameti, sia femminili, ovociti, sia maschili, spermatozoi, vengono trattati al fine di determinare il processo riproduttivo), nel caso in cui il materiale biologico non appartenesse ad uno dei due genitori o a nessuno dei due (cd. PMA “eterologa”, a differenza di quella “omologa”, ove il materiale biologico appartiene solo ad entrambi i genitori del nascituro).
Tra tali tecniche rientra anche la cd. fecondazione assistita, che ha ad oggetto esclusivamente il processo artificiale di fecondazione dei gameti: in conseguenza del divieto generale di ricorso alle PMA di tipo eterologo, anche la fecondazione assistita di tipo eterologo era vietata.
Secondo la Corte costituzionale (sentenza del 10 giugno 2014, n. 162), il divieto di ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo urta con la scelta di una coppia assolutamente sterile o infertile di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli, il che è «espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi» riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost. e che può essere limitata solo in caso di impossibilità di tutelare altrimenti interessi di pari rango (punto 6 della sentenza). Contrasta, inoltre, con il diritto alla salute (anche psichica) della persona, tutelata dall’art. 32 Cost., dal momento che «non sono dirimenti le differenze tra PMA di tipo omologo ed eterologo, benché soltanto la prima renda possibile la nascita di un figlio geneticamente riconducibile ad entrambi i componenti della coppia. Anche tenendo conto delle diversità che caratterizzano dette tecniche, è, infatti, certo che l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner, mediante il ricorso alla PMA di tipo eterologo, possa incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute della coppia» (punto 7 della sentenza).
In conclusione, secondo la Corte costituzionale, il divieto posto dal legislatore «realizza […] un ingiustificato, diverso trattamento delle coppie affette dalla più grave patologia, in base alla capacità economica delle stesse, che assurge intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale, negato solo a quelle prive delle risorse finanziarie necessarie per potere fare ricorso a tale tecnica recandosi in altri Paesi» (punto 13 della sentenza).
Quindi, la Corte costituzionale, operando una complessa valutazione tra scelte della politica e ragionevolezza, ha ritenuto irrazionale e non giustificata la discriminazione tra le due tipologie di tecniche di procreazione medicalmente assistita, ritenendo che tali tecniche incidano sulla salute, fisica e psichica, della coppia ed anzi riguardino quel «nucleo irriducibile del diritto alla salute», inteso sia quale irrinunciabile libertà dell’individuo, sia quale diritto sociale ad una prestazione essenziale da parte del Servizio sanitario nazionale (sulla sentenza, che ha dato luogo ad un ampio dibattito, v., tra gli altri, C. Tribodina, Il "diritto al figlio" tramite fecondazione eterologa: la Corte costituzionale decide di decidere, in Giur. cost., 2014, pp. 2593 ss.; G. Ferrando Gilda, La riproduzione assistita nuovamente al vaglio della Corte costituzionale. L'illegittimità del divieto di fecondazione "eterologa", in Corr. giur., 2014, pp. 1068 ss.; V. Carbone, Sterilità della coppia. Fecondazione eterologa anche in Italia, in Fam. e dir., 2014, pp. 761 ss.; P. Veronesi, La legge sulla procreazione assistita perde un altro "pilastro": illegittimo il divieto assoluto di fecondazione eterologa, in Ist. feder., 2015, pp. 5 ss.; A. Patroni Griffi, Il bilanciamento nella fecondazione assistita tra decisioni politiche e controllo di ragionevolezza, in Rivista AIC, n. 3/2015). Il mancato inserimento delle prestazioni nei LEA e la disomogeneità regionale
La Corte costituzionale, nel dichiarare l’incostituzionalità del divieto, ha però lasciato irrisolte alcune questioni. In particolare, il mancato inserimento della fecondazione assistita nei “livelli essenziali di assistenza” (“LEA”, stabiliti con il d.P.C.M. 29 novembre 2001, in G.U. 8 febbraio, n. 33, S.O. n. 26, ed aggiornato più volte in seguito), anche dopo la pronuncia della sentenza della Corte costituzionale n. 162/2014, ha portato a disparità di trattamento sul territorio nazionale, dal momento che le regioni hanno adottato soluzioni differenti, anche in considerazione delle risorse disponibili e delle specifiche priorità di ciascuna.
Infatti, data la rilevanza anche politica della questione, densa di profili etici, il Governo aveva deciso, nella riunione del Consiglio dei ministri dell’8 agosto 2014, di non adottare alcun provvedimento in materia, preferendo lasciare al Parlamento il compito di normare la materia (sul mancato aggiornamento dei LEA, v. R. Lugarà, L’abbandono dei LEA alle Regioni: il caso della procreazione medicalmente assistita, in Osservatorio AIC, febbraio 2015).
Se il diritto alla prestazione di PMA, anche di tipo eterologo, era stato riconosciuto dalla Corte costituzionale, a causa del mancato inserimento nei LEA, l’erogazione a carico del sistema sanitario veniva a dipendere da scelte “discrezionali” delle singole regioni italiane.
Infatti, queste ultime possono erogare ulteriori prestazioni rispetto a quelle indicate nei LEA, ponendole a carico del bilancio regionale (sulla base del riparto di competenze stabilito dal d.lgs. 30 dicembre 1992 n. 502). Tale possibilità è però esclusa per le regioni sottoposte ad un «piano di rientro sanitario», in quanto le regioni che vi sono sottoposte (attualmente: Abruzzo, Campania, Lazio, Molise, Puglia) non possono effettuare «spese non obbligatorie» (art. 1, c. 174, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, legge finanziaria 2005), tra le quali rientrano quelle di copertura delle prestazioni sanitarie non inserite nei LEA (cfr. Corte cost., 29 maggio 2013, n. 104). Quindi, le prestazioni di fecondazione assistita, in quanto non incluse nei LEA, non possono in alcun caso essere fornite dalle regioni sottoposte a piani di rientro sanitario.
Nelle more dell’inclusione nei LEA, le regioni e le province autonome si sono attivate, emanando, nell’ambito della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, indirizzi operativi ed indicazioni cliniche al fine di consentire, in via transitoria, l’avvio delle tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, garantendo, contestualmente, la sicurezza e la tutela della salute di tutti i soggetti coinvolti (cfr. il Documento sulle problematiche relative alla fecondazione eterologa a seguito della sentenza della Corte costituzionale nr. 162/2014, approvato nella riunione del 4 settembre 2014). In una successiva riunione (25 settembre 2014) veniva anche condivisa una proposta di tariffe convenzionali, pur se la Regione Lombardia, in tale ultima occasione, comunicava che, in attesa dell’inserimento delle prestazioni di PMA nei LEA, tali prestazioni sarebbero rimaste a carico dell’assistito qualora erogate da strutture di altre regioni.
Quindi, il mancato inserimento delle prestazioni di PMA nei LEA aveva portato ad una forte disomogeneità, sia nelle procedure, sia nella misura della compartecipazione degli assistiti alla spesa sanitaria (cd. ticket), sia nel rimborso delle prestazioni ricevute dagli assistiti in regioni diverse da quelle di residenza.
In tal modo si erano create situazioni di forte disomogeneità e disparità di trattamento tra i diversi sistemi regionali, che avevano anche dato luogo a fenomeni di turismo sanitario tra le regioni (cd. “mobilità interregionale”, soprattutto per le coppie residenti nelle regioni che non finanziano le PMA, su cui cfr. F. Angelini, Dalla fine di un irragionevole divieto al caos di una irragionevole risposta. La sentenza n. 162 del 2014 della Corte costituzionale, lo Stato e le Regioni sulla fecondazione assistita eterologa, in Ist. feder., 2015, pp. 61 ss.), e sulle quali avevano iniziato ad intervenire alcuni giudici amministrativi (su cui v. M. Bergo, Il riconoscimento del diritto alla fecondazione eterologa e alla diagnosi preimpianto nel sistema italiano di “regionalismo sanitario”, in Giur. cost., 2015, pp. 1738 ss.). La differenziazione operata dalla Regione Lombardia
In assenza di una disciplina nazionale, le regioni non sottoposte a piani di rientro hanno disciplinato ognuna per conto proprio le modalità di erogazione delle prestazioni sanitarie in materia di procreazione medicalmente assistita, in generale, e di fecondazione assistita, in particolare.
Nello specifico, la Regione Lombardia aveva deciso di riconoscere il diritto al ricorso alla fecondazione eterologa (autorizzando l’effettuazione di attività di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo presso i «Centri P.M.A.» presenti sul territorio regionale già autorizzati in passato a effettuare le attività di procreazione medicalmente assistita di tipo omologo), ma di non porre a carico del sistema sanitario regionali tali prestazioni, a differenza di quanto già avveniva per le analoghe prestazioni di tipo omologo, fintantoché le tecniche di PMA di tipo eterologo non fossero state inserite nei LEA (delibera della Giunta regionale del 12 settembre 2014, n. X/2344).
Quindi, pur se veniva riconosciuto il diritto al ricorso alle prestazioni di PMA di tipo eterologo, ed in particolare alla fecondazione di tipo eterologo, veniva stabilito che i costi di tali prestazioni gravassero interamente sugli assistiti, sulla base di specifiche tariffe (fissate con delibera della Giunta regionale del 7 novembre 2014, n. X/2611, e comprese tra i 1.500 e i 4.000 euro, in base alla complessità dell’intervento).
A seguito del ricorso presentato da una onlus, il TAR della Lombardia (con la sentenza 28 ottobre 2015, n. 2271) ha annullato le delibere regionali del 12 settembre 2014 e 7 novembre 2014, nella parte in cui si poneva a carico degli assistiti il costo delle prestazioni per la PMA di tipo eterologo e se ne stabilivano le relative tariffe, ravvisando il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento tra le coppie, non giustificabile dalla ipotizzata carenza di risorse, che non potrebbe comunque determinare il completo sacrificio delle posizioni giuridiche dei soggetti interessati; nonché per il vizio di irragionevolezza, attesa la riconducibilità della fecondazione eterologa allo stesso genus di quella di tipo omologo, assoggettata invece al pagamento del solo ticket.
A seguito dell’appello contro tale decisione, è stata pronunciata la sentenza del Consiglio di Stato che, nel respingere tale appello e confermare così la sentenza impugnata, ha affermato alcuni importanti principi in materia. La decisione del Consiglio di Stato
Con la sentenza del 20 luglio 2016, n. 3297, il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza del Tar Lombardia, respingendo gli argomenti proposti dalla Regione Lombardia (peraltro non esplicitati nelle delibere impugnate) che sono sostanzialmente riconducibili a due rilievi, strettamente connessi tra di loro (cfr. punto 5 della sentenza del Consiglio di Stato).
Il primo argomento è riconducibile, in sostanza, all’idea che, vertendosi in materia di “diritti finanziariamente condizionati”, tanto più che le prestazioni in oggetto non sono incluse nei LEA, data la ristrettezza delle risorse finanziarie regionali, spetta alla “insindacabile discrezionalità” della regione stabilire quali prestazioni finanziare con il proprio bilancio e quali invece porre interamente a carico degli assistiti.
Il secondo argomento fa leva invece sulla passata distinzione tra le due tecniche di fecondazione, superata solo con la recente sentenza della Corte costituzionale: se, in passato era stato possibile trovare le risorse per finanziare le prestazioni di tipo omologo, ora, a causa delle ristrettezze finanziarie della Regione Lombardia, non è possibile sostenere, sotto il profilo economico, il conseguente ampliamento alle prestazioni di tipo eterologo.
Il Consiglio di Stato, con una decisione assolutamente condivisibile, ha dapprima richiamato i limiti ed i condizionamenti generali a cui anche le prestazioni sanitarie sono sottoposte, per poi esaminare la ragionevolezza della decisione assunta dalla Regione Lombardia.
In via di principio, il Consiglio di Stato ricorda, innanzitutto, che il potere relativo all’organizzazione del servizio sanitario «spetta all’Amministrazione sanitaria, poiché è evidente che, fuori dai vincoli relativi ai livelli essenziali di assistenza e da oggettivi criteri di economicità e di appropriatezza, le scelte organizzative in questa materia rientrano nella sfera di massima discrezionalità politico-amministrativa, demandata dal d. lgs. n. 502 del 1992 all’Amministrazione regionale (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 6 febbraio 2015, n. 604; Cons. St., sez. III, 7 dicembre 2015, n. 5538)» (punto 13.2 della sentenza).
In secondo luogo, ribadisce che « il riconoscimento del diritto alla salute non è assoluto e incontra limiti sia esterni, posti dall’esistenza di diritti costituzionali di pari rango, che interni, posti appunto dall’organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale» (punto 13.5 della sentenza). E, tra tali limiti, vi è innanzitutto quello di carattere finanziario, che si riflette in modo inevitabile, e profondamente incisivo, sull’organizzazione regionale del servizio sanitario (punto 13.6 della sentenza). Ciò porta alla definizione anche delle prestazioni sanitarie come diritti “finanziariamente condizionati” (punto 15 della sentenza).
Tuttavia, in terzo luogo, la regione «deve garantire ragionevolmente il medesimo trattamento a tutti i soggetti che versino nella stessa sostanziale situazione di bisogno, a tutela del nucleo irriducibile del diritto alla salute (art. 32 Cost.), quale diritto dell’individuo e interesse della collettività, o di altri costituzionalmente rilevanti» (punto 13.7 della sentenza): ciò comporta che a tutte le persone che si trovino “sostanzialmente” nella medesima situazione deve essere garantito “ragionevolmente” il medesimo trattamento. E su ciò deve vigilare il giudice amministrativo, che pur non potendo entrare nel merito dell’ampia discrezionalità di cui gode la regione nell’adottare le decisioni in materia, è tenuto a «valutare se sussistano in questo apprezzamento profili di evidente illogicità, di contraddittorietà, di ingiustizia manifesta, di arbitrarietà o di irragionevolezza nella scelta amministrativa» (punto 13.4 della sentenza).
Sulla base di tali principi, il problema posto all’attenzione del giudice amministrativo si riduce alla valutazione dell’ambito della discrezionalità di cui gode la regione nel definire le prestazioni da finanziarie a carico del bilancio regionale al di fuori dei LEA. Si tratta, come riconosce il giudice amministrativo, di una valutazione discrezionale connotata da un «indubbio margine di “politicità”, poiché seleziona taluni interessi rispetto ad altri», ma che, ciò nonostante (o, più correttamente, proprio per tale motivo), «non può penalizzare in modo indiscriminato altri interessi, parimenti meritevoli di tutela, senza giustificarne le ragioni, risiedendo proprio nell’esternazione di queste ragioni l’essenza dell’imparzialità dell’amministrazione (art. 97 Cost.)» (punto 16.3 della sentenza).
Questo è probabilmente il punto centrale della questione: anche le decisioni ad alto tasso di politicità, adottate sia dal legislatore (statale o regionale), sia dall’amministrazione, devono comunque tenere conto di alcuni parametri (ed in primo luogo quello di ragionevolezza o, di razionalità, nonché quello di imparzialità), non essendo sufficiente il “voto” della maggioranza a “giustificare” o comunque a “legittimare” tali decisioni (come spesso i vertici politici delle amministrazioni sostengono).
Ne consegue che la regione non gode di una piena ed insindacabile discrezionalità nello stabilire quali prestazioni non comprese nei LEA assumere a carico del bilancio regionale, dal momento che il principio costituzionale di imparzialità, che è tutt’uno con quello del buon andamento, «impone che le scelte dell’autorità siano sì selettive, ma mai discriminatorie» (punto 17 della sentenza).
L’amministrazione regionale è quindi tenuta ad individuare un ragionevole punto di raccordo e di bilanciamento tra i due valori costituzionali della salute e dell’equilibrio finanziario (punto 18.1 della sentenza).
Ebbene, sia il giudice amministrativo di primo grado, sia quello di secondo grado non hanno rinvenuto alcuna ragionevole giustificazione alla base della differenziazione di trattamento finanziario tra fecondazione omologa ed eterologa, stante la piena assimilazione di tale tecniche compiuta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 162/2014.
Né il fatto che si tratti di prestazioni non incluse nei LEA è ragione sufficiente, in sé e per sé, per negare del tutto prestazioni essenziali per la salute degli assistiti, né può incidere sul nucleo irriducibile ed essenziale del diritto alla salute, dal momento che l’ingiustificato diverso trattamento delle coppie affette da una patologia, in base alla capacità economica delle stesse, «assurge intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale» (Corte Cost., sent. n. 162/2014, richiamata al punto 21 della sentenza). La rilevanza della decisione e le prospettive
La sentenza del Consiglio di Stato ha chiarito che non solo non vi può essere distinzione tra fecondazione omologa e fecondazione eterologa quanto all’ammissibilità delle stesse nel nostro ordinamento (secondo quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 162/2014), ma che neppure l’amministrazione regionale può differenziare tra le stesse sotto il profilo finanziario, ponendo a carico del sistema sanitario solo le prestazioni del primo tipo.
La sentenza, quindi, impone un’importante assimilazione tra le due prestazioni, venendo incontro alle esigenze (anche finanziarie) delle coppie ove uno o entrambi i futuri genitori siano sterili o infertili. Gli effetti sono destinati ad essere ampliati e razionalizzati per effetto dell’inserimento nel nuovo nomenclatore della specialistica ambulatoriale di tutte le prestazioni di procreazione medicalmente assistita (PMA) che saranno quindi erogate a carico del Servizio sanitario nazionale, nell’ambito dell’emanazione, prevista per settembre 2016, del d.P.C.M. con cui saranno approvati i nuovi LEA.
La rilevanza della sentenza va però oltre il caso specifico, dal momento che sottolinea il potere/dovere del giudice amministrativo di valutare le decisioni, pur connotate da un alto tasso di politicità, alla luce dei parametri di ragionevolezza ed imparzialità. Politica ed amministrazione, pur godendo di ampi ambiti di discrezionalità, non possono infatti adottare decisioni fondate sul solo peso del consenso elettorale, ma devono operare le proprie scelte tenendo conto, sempre e comunque, dei principi fondamentali dell’ordinamento e della buona amministrazione. | |
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